Calabria: continua il declino o inizia lo sviluppo? Riflessioni a margine di un dibattito a San Mango d’Aquino
L’incontro, organizzato da Gianmarco Cimino «per promuovere un dibattito aperto e franco sulle nostre comunità», ha visto la partecipazione di un buon numero di amministratori pubblici, operatori economici, piccoli imprenditori, sindacalisti, uomini politici ed esponenti dell’associazionismo.
Sono mancati – ma non è una novità – l’interesse della cittadinanza e la presenza di un pubblico più ampio; ed è un limite perché sono proprio i cittadini, in ultima analisi, i destinatari finali di ogni operazione messa in campo per la promozione del territorio.
Questa “frattura”, quest’assenza di comunicazione e d’informazione fra le diverse componenti della società, è in realtà uno dei fattori che ostacolano maggiormente la crescita (non solo economica) di una comunità e relega – da una parte – la popolazione ad un ruolo di marginalità e – dall’altra – isola gli attori principali dello sviluppo, i quali rischiano di cadere nella trappola dell’auto-referenzialità arrivando anche ad essere identificati come “casta”, tanto per usare un termine diventato ormai frequente nel linguaggio comune.
«Non più la classica iniziativa, ma la creazione di uno spazio visione, oltre i confini, insieme per il territorio», aveva detto Cimino.
E le novità non sono mancate. Perché sono emerse sia realtà produttive nate dall’innovazione, sia occasioni e opportunità di collaborazione con enti associativi e consorzi, e perché è stata verificata la determinazione di alcuni giovani operosi decisi a mettere a frutto il loro entusiasmo per trovare soluzioni occupazionali e di successo nella loro terra di origine.
Esponenti politici e sindacali – e anche il deputato Antonio Viscomi, che ha concluso i lavori – hanno aggiunto che il mancato sviluppo non è causato dall’assenza di risorse finanziarie, in quanto i fondi ci sono e attendono solo di essere impiegati.
Allora perché i nostri territori non crescono? Perché la Calabria non si sviluppa?
Se dovessimo valutare il progetto di una nuova attività imprenditoriale, gli elementi da prendere in esame sarebbero – essenzialmente – la validità tecnico-produttiva di impianti e attrezzature, l’adeguata copertura finanziaria degli investimenti e la redditività del capitale investito suffragata da un serio e credibile programma di marketing.
Quando però si valuta – o si ragiona – su un territorio, su un’area o un distretto, subentrano altri elementi e occorre spostare l’attenzione alle cosiddette pre-condizioni, e quindi a tutto ciò che è preliminare rispetto alla possibilità di realizzare qualcosa.
La Calabria, assieme al contesto più ampio del Regno di Napoli, ha già conosciuto – nel passato – occasioni di sviluppo, quando, per esempio, nella prima metà Ottocento «il settore industriale segna netti progressi, ora sotto lo stimolo di tecnici e operatori stranieri, ora per l’interesse che vi porta lo Stato», come ha scritto Alberto Caracciolo.
Però il tentativo fatto dalla dinastia borbonica di dotare il Mezzogiorno di un’industria al passo coi tempi fallisce, e Silvio De Majo ne elenca alcune cause: inserimento in una economia generale piuttosto statica con condizioni di mercato arretrate; posizione politicamente marginale e geograficamente decentrata del Regno; scarso numero e limitata capacità imprenditoriale degli industriali, che preferiscono la rendita sicura e parassitaria; mancanza di una organica rete infrastrutturale di supporto.
Ma ci sono altri fattori che si aggiungono alle cause di quella mancata industrializzazione del Mezzogiorno. Sono fattori che ci riportano a ciò che abbiamo chiamato pre-condizione e che Marco Doria individua nell’ambiente economico locale quando dice che nel Meridione i cotonieri svizzeri del Salernitano «operano in condizioni di isolamento, producono per mercati lontani, hanno talora relazioni problematiche con l’ambiente circostante, mentre al Nord l’inserimento riesce bene, trovando un humus più favorevole e contribuendo così a un ulteriore sviluppo dell’apparato produttivo».
E Giuseppe Galasso (storico, giornalista, politico e professore universitario deceduto l’anno scorso), col quale mi sono incontrato due volte a Falerna, assieme ad Armido Cario e altri studiosi, ci ha ricordato: «Proprio l’osservazione storica ci dice che nessun decisivo salto di qualità si produce per il semplice sussistere delle condizioni tecnico-sociali e produttive ritenute idonee a ciò. Le condizioni sono necessarie, anzi indispensabili, ma non bastano. Ciò che decide è sempre, e non solo in ultima analisi, lo spirito di iniziativa».
E qui entriamo nel cuore del problema. Noi abbiamo avuto un uomo in Calabria – Antonio Serra, di Cosenza – che prigioniero nelle carceri della Vicaria a Napoli scrive un Trattato nel quale parla «delle cause che possono far abbondare li regni d’oro e d’argento dove non sono miniere», e tra le cause egli inserisce «la qualità delle genti», cioè «l’atteggiamento psicologico della popolazione di uno stato verso l’attività produttiva».
La maggiore o minore industriosità di un popolo acquista un rilievo più determinante della sua «quantità» anagrafica, diceva Serra nel 1613, attribuendo così molta importanza all’azione umana, e cioè all’atteggiamento delle persone.
Il Marchese Domenico Grimaldi, patrizio genovese nato a Seminara, esponente del ramo calabrese dei Grimaldi di Monaco e proprietario di terreni nella Piana di Gioia Tauro, nel 1773 scriveva: «Nella Calabria al contrario la potatura degli Ulivi fa orrore a nominarla soltanto, e si crede che chi tagli un solo ramoscello d’Ulivo incorra nella scomunica».
Grimaldi – che Antonio Piromalli definisce «il primo intellettuale completo dell’era moderna della Calabria» – si scontra con tutti (contadini, nobili, clero) pur di adeguare l’arretrata economia agricola e lo stato miserevole dell’industria del Meridione ai moderni sistemi esistenti in Europa e nella parte più progredita d’Italia. Sua è l’iniziativa di sostituire il vecchio frantoio alla calabrese (una pietra da mola fatta girare nella vasca dalle braccia e dalle spalle di più lavoratori) con un più moderno e funzionale tipo di pressa: il torchio cosiddetto “alla genovese”. Nel tentativo di migliorare la qualità, visto che l’olio di quelle terre veniva venduto principalmente per la produzione del sapone di Marsiglia oppure per lubrificare le macchine industriali dell’Inghilterra.
Entriamo nel problema perché le vicende narrate – pur essendo riferite al Settecento e all’Ottocento – presentano carattere di attualità per quanto riguarda il nostro ambiente economico locale, e più in particolare perché sottolineano l’importanza dell’innovazione, perché il numero di industriali veri è basso, perché gli investimenti scarseggiano, perché abbiamo una limitata (e a volte inesistente) capacità di associarsi e di fare rete.
Ci sono – in Calabria – aziende che nel loro settore sono un’eccellenza, e abbiamo anche uomini e donne che hanno fatto dell’impresa la loro missione. Anche in questo territorio – che dalla costa tirrenica passando per San Mango arriva fino alle alture del Reventino – vantiamo buoni imprenditori ed eccellenze. Ma non basta. Non bastano a determinare lo sviluppo della regione; non bastano a concorrere al progresso della popolazione (e così tengo separate le due parole – sviluppo e progresso – come piaceva a Pasolini).
Cosa fare, dunque? Cosa fare per creare prima pre-condizioni favorevoli, e poi per sviluppare una politica economica che possa influire sulla crescita del nostro territorio, della nostra regione?
Gli imprenditori venuti a San Mango hanno fornito il loro esempio e la loro esperienza; i professionisti hanno messo a disposizione il loro sapere; i politici e gli amministratori hanno informato su progetti e programmi. Ma la strada da percorrere è lunga. I problemi sono urgenti. E il tempo che abbiamo a disposizione è limitato. Negli ultimi 15 anni la Calabria ha perso 180.000 giovani, e si stima che tra il 2000 e il 2050 la regione perderà complessivamente 500.000 abitanti. Il Sud Italia, tra il 2016 e il 2065, perderà 5 milioni di abitanti. E in presenza di uno spopolamento così evidente, quale rilevanza economica e quali prospettive può avere un territorio?
Incontri come quello di San Mango devono affrontare anche questa sfida. Anzi, essenzialmente questa sfida. Altrimenti si corre il rischio di lasciare spazio al protagonismo e all’auto-referenzialità. E questo non giova. In altri campi possiamo permetterci il lusso di soddisfare il bisogno di vanità che spesso l’uomo manifesta. Ma quando in campo si giocano l’interesse collettivo e la crescita di una comunità, occorre lasciare un segno, una traccia. Occorre avere una visione che consenta di utilizzare la transitorietà del presente per creare un futuro migliore. Perché è qui, in questo nostro tempo che si costruisce l’avvenire. E chi sbaglia ora, magari anche in buona fede, chi specula o approfitta, appartiene al gruppo di persone che saranno condannate dalla storia.
Termino con un invito: sarebbe opportuno recuperare e prendere in considerazione il lavoro avviato da Fabrizio Barca nella qualità di ministro per la Coesione Territoriale dal 2011 al 2013. Specialmente laddove – tra gli strumenti – suggerisce di «aprire varchi agli innovatori nei territori, fermando gli “estrattori” di rendita», e quando invita a «ripartire dalla moltitudine di pratiche private e pubbliche per costruire proposte di sistema capaci di vincere».